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Più alimenti di qualità, meno diritti: Italia rimandata in cibo sostenibile
L’Italia corre bene sulla frontiera dell’alimentazione di qualità: la produzione cresce, il brand nazionale si rafforza, i posti di lavoro aumentano. Ma rischiamo di inciampare sui diritti del lavoro ignorati, sull’evasione fiscale, sulla dieta mediterranea accantonata. Il bilancio del secondo dei Sustainable Development Goals (“Porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile”) è in chiaroscuro. Le indicazioni contenute nel Rapporto 2017 dell’Asvis (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile), mostrano un miglioramento rispetto all’anno precedente, ma anche una considerevole distanza dal traguardo.
Per misurare il cammino che manca conviene dare un’occhiata ai target dell’Agenda 2030: “Entro il 2030, bisogna raddoppiare la produttività agricola e il reddito dei produttori di alimenti su piccola scala, in particolare le donne, le popolazioni indigene, le famiglie di agricoltori, pastori e pescatori, anche attraverso l’accesso sicuro e giusto alla terra, alla conoscenza, ai servizi finanziari”. E nello stesso tempo occorre “applicare pratiche agricole che aiutino a conservare gli ecosistemi, che rafforzino la capacità di adattamento ai cambiamenti climatici, alle condizioni meteorologiche estreme, alla siccità, alle inondazioni e agli altri disastri, e che migliorino progressivamente il terreno e la qualità del suolo”.
Ci stiamo riuscendo? In termini di performance dell’agricoltura italiana nel 2016 si è avuto un risultato positivo in termini di valore aggiunto (+5,6%), ma con forti disomogeneità in termini di produttività per dimensione aziendale (a favore delle grandi aziende) e per area territoriale (a favore del Nord).
Altre notizie negative vengono dal Mediterranean Adequacy Index, lo studio del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) da cui si ricava il grado di aderenza di un regime alimentare alla dieta mediterranea, cioè dal tipo di alimentazione che ha un basso impatto ambientale e sanitario. “Un confronto tra il triennio 1990-1992 e quello 2009 -2011 evidenzia un peggioramento della situazione in Italia, a testimonianza di un’evidente e negativa omologazione dei regimi alimentari, agevolata da un più facile accesso a cibi trasformati, zuccheri e grassi raffinati, e degli stili di consumo improntati a un aumento dei pasti fuori casa e all’utilizzazione di cibi pre-confezionati”, si legge nel Rapporto Asvis. “Queste informazioni mostrano la necessità di orientare i consumatori a modelli alimentari e stili di vita più sani con azioni di educazione alimentare”.
Il rapporto ricorda anche alcune misure approvate nel 2016 che vanno nella direzione giusta. Ad esempio la legge per il contrasto al caporalato e al lavoro nero nel settore agricolo per ridurre i margini di un’economia illegale che, secondo uno studio della Flai-Cgil, muove in Italia un’economia sommersa che vale 12,5 miliardi di euro. Finora però gli effetti di questa norma sono stati limitati perché la battaglia dei prezzi è spietata e finora ha tagliato fuori chi non si adegua.
“Se vogliamo che un’agricoltura esista ancora nei nostri Paesi, va ripensato il prezzo del cibo: quello che paghiamo oggi è incompatibile con l’agricoltura di qualità”, ricorda Fabio Brescacin, presidente di Ecor Naturasì, la maggiore catena di distribuzione del bio. “Per il pomodoro, ad esempio, il prezzo che va riconosciuto al contadino dovrebbe essere almeno 25 centesimi al chilo: oggi è a 8. Così riesce a stare a galla solo chi produce 100 mila chili di pomodoro per ettaro e per farlo sparge enormi quantità di concimi chimici e pesticidi. Per questo noi abbiamo iniziato un percorso sulla trasparenza dei prezzi: sull’ortofrutta, dal 45 al 50% dei ricavi va a chi coltiva la terra in maniera biologica e biodinamica, senza inquinare”.
Fonte: repubblica.it