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COVID-19: gestione del rischio e sfera di competenza del datore di lavoro
La pandemia relativa alla diffusione del virus SARS-CoV-2 “ha avuto effetti dirompenti su ogni ambito della vita sociale, incluso il lavoro nelle organizzazioni pubbliche e private”. E “nella stratificazione alluvionale di regole anticontagio emanate – e incessantemente aggiornate – a livello statale e locale, generale e settoriale, un posto di rilievo è occupato dalle disposizioni della decretazione governativa e dei protocolli condivisi votate al contenimento del rischio infettivo nei luoghi di lavoro”.
A ricordare in questi termini l’impatto su “ogni ambito della vita sociale” dell’emergenza COVID-19 e a permetterci di fare interessanti riflessioni su alcuni temi delicati in materia di salute e sicurezza è un contributo del Prof. Vincenzo Mongillo (Ordinario di Diritto penale presso l’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza) pubblicato sul numero 2/2020 della rivista trimestrale “ Diritto penale contemporaneo”.
Come indicato nell’abstract il contributo “cerca di risolvere i dubbi e i contrasti di vedute insorti in merito al rapporto tra le previsioni di contrasto del Covid-19 negli ambienti lavorativi e il sistema di tutela della salute e sicurezza del lavoro incardinato nel d.lgs. n. 81/2008, prospettando un raccordo sistematico”.
Inoltre vengono indagati “i possibili profili di responsabilità penale individuale e dell’ente collettivo ex art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001, evidenziando, tra l’altro, i limiti di funzionalità del reato colposo di evento nelle dinamiche eziologiche delle lesioni o dei decessi conseguenti al contagio, nonché la ratio e i limiti del nuovo art.29-bis del d.l. n. 23/2020, conv. dalla l. n. 40/2020, concepito per sottrarre uno spazio residuale di operatività alla colpa generica”.
Riflessioni importanti anche perché “la convulsa produzione normativa di questi mesi, che oggi tende ad apparire eccentrica e segnata dall’emergenza, potrebbe nondimeno preannunciare, per taluni aspetti, il percorso del nostro futuro diritto penale della sicurezza sul lavoro”.
Ci soffermiamo oggi su uno dei punti trattati dall’autore, e più volte affrontati anche dal nostro giornale: la valutazione dei rischi correlati al contagio del nuovo coronavirus.
Il rischio COVID-19 e il necessario apporto dei soggetti datoriali
Il contributo del Prof. Mongillo, dal titolo “Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro in tempi di pandemia” sottolinea, dunque, che la pandemia globale che ha scosso il pianeta “ci ha catapultati in un’inedita, epocale, dimensione emergenziale”.
Se ogni ambito della vita associata “ha, così, subito l’impatto dirompente del nuovo agente patogeno”, anche rispetto ai luoghi di lavoro “è sorta la necessità di approntare un vero e proprio arsenale di misure protettive contro la (ulteriore) propagazione del contagio, al fine di salvaguardare l’incolumità e la salute dei lavoratori e, di riflesso, dell’intera collettività”.
A questo proposito il Prof. Mongillo sofferma nel suo corposo contributo su vari temi: sul ruolo dell’autorità pubblica e su quello dei datori di lavoro, anche in relazione alla dicotomia prevenzione/precauzione, sulla partnership pubblico-privato in tempi di emergenza e sul tema della valutazione dei rischi.
L’autore indica che la gestione in partenariato “Stato-parti sociali-datori di lavoro” del rischio COVID-19 nei contesti lavorativi “rende insopprimibile anche un momento di valutazione decentrata del rischio-contagio da coronavirus in occasione di lavoro”.
E a questo proposito indica che “se realmente la valutazione preventiva del rischio biologico da coronavirus fosse stata interamente ‘avocata’ dallo Stato sottraendola ai datori di lavoro, ne discenderebbe quasi la sublimazione – in questo peculiare settore emergenziale – della posizione espressa un ventennio fa da un illustre giurista come Federico Stella, il quale, nel criticare l’approccio del legislatore italiano alla valutazione dei rischi, con il pensiero principalmente rivolto ai grandi rischi industriali del nostro tempo, era persuaso che la loro valutazione fosse un problema di interesse dell’intera collettività, sicché lo Stato avrebbe dovuto farsene carico – in luogo dei singoli operatori privati – quale garante di interessi primari come la salute e la sicurezza”.
Tuttavia un corretto riparto dei doveri di governo del rischio COVID-19 negli ambienti di lavoro “non può prescindere dall’apporto conclusivo dei singoli soggetti datoriali” e “varie ragioni militano a sostegno di tale tesi, che si è andata affermando soprattutto dalla normazione di “fase 2”, quella meno traumaticamente esposta all’emergenza”.
Il rischio generico, il rischio aggravato e il rischio contagio
Innanzitutto si indica che “non convince del tutto la teoria secondo cui il rischio di infezione da SARS-CoV-2 continui a rappresentare, anche per i lavoratori, solo un rischio ‘generico’ a cui è esposta la generalità dei consociati, con l’unica eccezione rappresentata dalle realtà in cui il pericolo di esposizione ad agenti biologici sia – deliberatamente o potenzialmente – insito o immanente al processo produttivo e per questo solo accentuato dal nuovo fattore patogeno (cfr. art. 266 ss. d.lgs. n. 81/2008): ad es. le strutture sanitarie, socio-sanitarie, i laboratori, gli impianti di smaltimento rifiuti e di raccolta di rifiuti speciali potenzialmente infetti, ecc”.
In realtà, “al di là dei contesti produttivi a rischio biologico intrinseco, ai quali soli” – secondo l’autore – “si applica il Titolo X del d.lgs. n. 81/2008, l’infezione da coronavirus diviene, in ambiente lavorativo, un rischio tendenzialmente ‘aggravato’”. Infatti “nessuno nega che si tratti di un rischio ex se ubiquitario e incombente su qualsiasi cittadino. Tuttavia, in assenza di accorte contromisure, esso può ripercuotersi con maggiore intensità e frequenza su chiunque operi in un contesto pluripersonale organizzato. Di contro, la puntuale attuazione delle misure correttive è in grado di rendere i luoghi di lavoro persino più ‘rassicuranti’ dei contesti extra-lavorativi. Per queste semplici ragioni, la gestione del rischio di contagio non può essere sottratta alla sfera di competenza del datore di lavoro”.
E – continua il Prof. Mongillo – a questo rischio occupazionale “non sono esposti solo gli operatori sanitari o socio-sanitari, per menzionare le categorie di certo più colpite dall’epidemia”: è sicuramente “più vulnerabile ogni soggetto che operi a diretto contatto con clienti, utenti o fornitori: cassiere di supermercato, addetti al front office di un ufficio aperto al pubblico, preposti a strutture alberghiere o ristorative, ecc.”. E a ben vedere “l’emergenza sanitaria non riguarda solo tali categorie. Qualsiasi ambiente lavorativo – salvo casi limitati – può esporre coloro che vi operano al rischio di contrarre il virus, giacché fisiologicamente è presente una pluralità di soggetti, i contatti intersoggettivi si susseguono in modo tendenzialmente continuativo e gli spazi sono circoscritti”: “occorrono dunque misure ad hoc per evitare che il luogo di lavoro da contesto di crescita umana e realizzazione professionale si trasformi in luogo di infezioni, di cluster e, nei casi più gravi, di focolai epidemici”.
Il soggetto responsabile dell’organizzazione e i rischi esogeni ed endogeni
Inoltre “quando si sostiene che sul datore di lavoro non grava il dovere di valutare il rischio di contagio, si dice l’ovvio se si intende negare che egli sia tenuto a individuare le cause, le modalità e le probabilità del contagio in generale, e a fortiori che egli sia chiamato a dirimere controversie o dubbi scientifici”. Tuttavia “al datore di lavoro spetta la concretizzazione del risk assessment operato, in termini globali, dal legislatore e dall’autorità pubblica sanitaria e, di riflesso, la declinazione dell’annessa cornice cautelare nel singolo plesso organizzativo”.
In definitiva ciò “da cui non può rifuggire il soggetto responsabile dell’organizzazione (o di una sua unità produttiva funzionalmente autonoma: art. 2, comma 1, lett. b) d.lgs. n. 81/2008) è valutare come quel rischio – scientificamente acclarato e cristallizzato nelle norme generali ed astratte – possa sprigionarsi nel contesto lavorativo sottoposto al suo potere gerarchico. Si tratta, difatti, del rischio a cui il lavoratore è soggetto alla luce delle sue peculiari mansioni, delle condizioni organizzative e produttive e della conformazione dell’ambiente occupazionale in quanto tale”.
E l’attuazione di precetti cautelari codificati “presuppone una valutazione in concreto circa l’impatto potenziale del fattore di pericolo nello specifico contesto produttivo: attività da svolgere, ambito spazio-temporale di riferimento, persone implicate nell’osservanza e quelle su cui può ripercuotersi il rischio. Ad es. in un luogo di lavoro in cui operi, secondo precise turnazioni, un solo lavoratore, o nel quale i dipendenti non abbiano contatti inter-personali, non si pone – in linea di massima – alcuna esigenza di distanziamento sociale. Un processo produttivo in cui si faccia ampio ricorso alla robotica e le occasioni di contatto intersoggettivo siano oltremodo ridotte presenta, all’evidenza, un rischio minimo di contagio, giacché le macchine non possono contagiarsi tra loro e un distanziamento notevole, come sappiamo, previene il contagio. Ancora, un luogo dove lavorino tutti individui giovani e sani pone problematiche minori di un altro frequentato prevalentemente da persone anziane o in condizioni di ‘fragilità’”.
L’autore torna poi sulla distinzione esogeno ed endogeno.
Distinzione che “non pare rinvenirsi nella giurisprudenza penale in materia di doveri valutativi del datore di lavoro. Valga per tutte la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione nel caso ThyssenKrupp, in cui si è affermato che il datore di lavoro, avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha l’obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda e, all’esito, di redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 del d.lgs. n. 81/2008, all’interno del quale vanno indicate le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori”. E questa lettura “trae fondamento, oltre che dal generale duty of care del datore di lavoro (art. 2087 c.c.), dalla normativa prevenzionistica incardinata nel d.lgs. n. 81/2008, che impone, come obbligo indelegabile del datore di lavoro (art. 17, comma 1, lett. a)), una valutazione ‘onnicomprensiva’ dei rischi lavorativi, a prescindere dalla fonte di origine, quale adempimento prodromico all’individuazione ed attuazione delle misure di prevenzione e di protezione e dei dispositivi di protezione individuali”.
È vero, si ricorda, che il legislatore ha impiegato l’espressione “rischi professionali”; tuttavia, l’art. 36 (D.Lgs. 81/2008) “nel declinare l’obbligo di informazione dei lavoratori da parte del datore di lavoro, esplicita che esso comprende non solo i rischi specifici cui il lavoratore è esposto in relazione all’attività svolta – comma 2, lett. a) –, ma anche quelli ‘per la salute e sicurezza sul lavoro connessi alla attività della impresa in generale’ (viene così richiamato proprio l’insieme dei rischi oggetto dell’obbligo valutativo datoriale)”.
L’uso dei DPI, i lavoratori inviati all’estero e l’approccio degli enti
Una delle possibili ragioni su cui basare il dovere di risk assessment del datore di lavoro va ritrovata, secondo l’autore, sulle conseguenze della normativa relativa all’emergenza epidemiologica che “ha espressamente ricondotto nell’alveo del corpus normativo prevenzionistico ex d.lgs. n. 81/2008 una precisa misura di contenimento del contagio sui luoghi di lavoro, vale a dire l’utilizzo delle mascherine. Esse, a mente dell’art. 16 del d.l. n. 18/2020, conv. con mod. dalla l. 24 aprile 2020, n. 27, sono state assimilate a dispositivi di protezione individuale (DPI) per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività siano oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro”.
Tuttavia “l’obbligo di fornire ai lavoratori i DPI necessari sorge, concretamente, quando residui un rischio d’infezione intollerabile nonostante l’applicazione delle altre misure di sicurezza attuabili, tra cui in primis quelle volte ad assicurare il distanziamento sociale e a eliminare o ridurre l’interazione fisica tra lavoratori, clienti, fornitori, tecnici esterni e visitatori. Allora, è di tutta evidenza, da un lato, che non avrebbe senso una valutazione parcellizzata per singole misure contenitive, e, dall’altro lato, come non possa prescindersi da una valutazione del rischio-contagio nello specifico plesso lavorativo, in particolare alla luce del processo produttivo e dell’organizzazione del lavoro”.
L’autore accenna poi alle problematiche concernenti i lavoratori inviati all’estero, “rispetto ai quali sembra avviato a consolidarsi l’assunto secondo cui il datore di lavoro sia tenuto a valutare e gestire anche rischi come quello sanitario-epidemico (adeguatezza delle strutture di supporto per l’emergenza e il pronto soccorso, eventuali epidemie in corso, ecc.) o quello geopolitico (guerre, secessioni, terrorismo, ecc.) del sito straniero. Si tratta di rischi ex se esogeni, ma che possono essere accresciuti proprio dall’espletamento di una precisa attività lavorativa”. E risulterebbe difficile discernere “perché un datore di lavoro debba valutare il rischio sanitario ‘aggravato’ del dipendente mandato in missione in un paese in cui, ad esempio, è in atto una epidemia locale (questo è un problema che le aziende italiane hanno dovuto porsi, all’inizio dell’anno, anche in occasione dell’invio di lavoratori presso aziende con sede a Wuhan), e non il rischio endo-aziendale per un dipendente che presti la sua opera in Italia durante una crisi epidemiologica e sanitaria. Una simile disparità di trattamento sarebbe irragionevole”.
L’autore fa riferimento anche ad una condanna emessa dal GUP di Roma, all’inizio dello scorso anno, nei confronti dei vertici di una società italiana e dello stesso ente societario.
L’autore segnala che la tesi sostenuta in questa sede “è peraltro suffragata anche dall’approccio suggerito dagli enti istituzionalmente deputati, a livello nazionale (Inail) ed europeo (Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro), ad affrontare le questioni relative alla sicurezza e alla tutela della salute in ambiente di lavoro”.
Tali autorevoli indirizzi corroborano l’impressione “secondo cui, nella prevenzione del rischio di contagio endo-aziendale, non si tratti semplicemente di adempiere a comandi calati dall’alto”. E in particolare, l’Inail, in un documento tecnico dello scorso aprile, a cura del Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale, “ha proposto un’innovativa metodologia di valutazione integrata del rischio in disamina, che tiene in considerazione tre variabili:
- esposizione: il rischio di venire a contatto con fonti di contagio nello svolgimento delle specifiche attività lavorative;
- prossimità: le caratteristiche intrinseche dei processi lavorativi che non permettono un sufficiente distanziamento sociale (ad es. specifici compiti in catene di montaggio) per parte del tempo di lavoro o per la quasi totalità;
- aggregazione: le tipologie di lavoro che prevedono il contatto con altri soggetti oltre ai lavoratori dell’azienda (c.d. terzi), come la ristorazione, il commercio al dettaglio, l’istruzione, il settore alberghiero, ecc”.
E basandosi su tale “approccio di matrice di rischio” si può arrivare “all’individuazione delle misure atte a prevenire/mitigare il rischio di contagio di lavoratori, ovviamente conformandosi a tutti i dettami normativi di riferimento”.
Si ricordano poi le posizioni dell’European Agency for Safety and Health at Work (EU-OSHA) che, riguardo alla questione COVID-19 nei luoghi di lavoro, “nel raccomandare ai datori di lavoro le azioni da intraprendere, colloca in primo piano proprio la necessità di aggiornare la valutazione del rischio”.
Infine anche il passaggio dalla prima (14 marzo) alla seconda versione del protocollo condiviso generale (24 aprile) “denota la progressiva ‘attrazione’ del rischio di contagio da coronavirus nel sistema di prevenzione aziendale”. Nel documento aggiornato, continua a essere propalata la descrizione del Covid-19 come un ‘rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione’, seguendo «la logica della precauzione». Tuttavia tra le pieghe del protocollo integrato, “due passi evocano la valutazione dei rischi che incombe sul datore di lavoro: quello in tema di DPI, dove si stabilisce che ‘nella declinazione delle misure del Protocollo all’interno dei luoghi di lavoro sulla base del complesso dei rischi valutati e, a partire dalla mappatura delle diverse attività dell’azienda, si adotteranno i DPI idonei’, prefigurando così la consegna di DPI differenziati a seconda del livello di rischio; l’altro – ancora più denso di significati ai nostri fini – nel quale, al momento di valorizzare le funzioni prevenzionistiche del medico competente, si evidenzia che tale figura di garante, ‘in considerazione del suo ruolo nella valutazione dei rischi e nella sorveglianza sanitaria, potrà suggerire l’adozione di eventuali mezzi diagnostici qualora ritenuti utili al fine del contenimento della diffusione del virus e della salute dei lavoratori’”.
E dunque “il fatto stesso che le c.d. ‘misure di precauzione’ elencate nei singoli protocolli aziendali possano – come espressamente delucidato nel protocollo condiviso – essere ‘integra[te] con altre equivalenti o più incisive secondo le peculiarità della propria organizzazione, previa consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali’, del pari sembra sottendere un rischio da valutare in concreto a livello decentrato”.
I datori di lavoro, le difficoltà, l’atteggiamento prudenziale e la valutazione
Se la valutazione documentata dei rischi è un obbligo indelegabile del datore di lavoro (art. 17, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 81/2008) e la mancata integrazione/aggiornamento del documento ha immediate implicazioni penali, “una cosa è la titolarità dell’obbligo, un’altra la sua problematica attuazione in una situazione emergenziale imprevista; complicazione che, almeno in un primo momento, ben potrebbe essersi tradotta, in moltissime realtà organizzative, in impossibilità materiale di adempiere, con consequenziale esclusione di un’omissione penalmente rilevante (ad impossibilia nemo tenetur)”.
Tuttavia a seguito della ripresa progressiva di tutte le attività produttive, consentita dal contenimento dell’epidemia e dal forte alleggerimento dell’emergenza sanitaria, è raccomandabile – continua l’autore – “un atteggiamento prudenziale da parte dei datori di lavoro”.
In particolare “nelle strutture nelle quali il rischio di esposizione ad agenti biologici era già stato identificato e valutato, per l’inerenza specifica al processo produttivo, tra cui in primis le strutture sanitarie e tutte quelle indicate nell’allegato XLIV al d.lgs. n. 81/2008, si richiede la rielaborazione della valutazione dei rischi (in particolare biologici) e il conseguente aggiornamento del DVR. In tutte le altre strutture lavorative, occorre comunque valutare l’impatto del nuovo pericoloso agente patogeno, quale rischio nuovo, inedito. Il datore di lavoro potrà partire dalla mappatura delle attività e dalla disamina delle peculiarità dell’azienda già cristallizzate nel DVR adottato ex d.lgs. n. 81/2008. Tale operazione sarà di certo più comoda ove già si disponga di una stima completa ed esaustiva dei (pregressi) rischi per la salute e sicurezza. Il responsabile dell’organizzazione dovrà quindi procedere alla valutazione del rischio di contagio, tenendo conto delle caratteristiche dei processi e dei luoghi di lavoro, al fine di declinare nel contesto peculiare le misure organizzative e igienico-sanitarie sancite dalle norme di legge e dai protocolli condivisi, se del caso sfruttando i margini di discrezionalità offerti dalla normativa di riferimento”. Ciò consentirà di “progettare e mettere in atto un protocollo decentrato adeguato ed efficace, giacché ritagliato sulle specifiche caratteristiche del singolo ente. L’azienda, ovviamente, non è tenuta a sopravanzare le prescrizioni anti-contagio previste dai protocolli condivisi, in quanto delimitative del rischio giuridicamente consentito”. Ed è “lecito elaborare il ‘protocollo aziendale Covid-19’ come addendum, documento allegato, appendice o integrazione al DVR. Dirimente è la sostanza, l’effettività valutazione del rischio di contagio nel singolo sito produttivo”.
In definitiva, conclude l’autore che si sofferma su molte altre tematiche in relazione all’emergenza COVID-19, “le esigenze di contrasto alla diffusione pandemica del coronavirus nei luoghi di lavoro non hanno relegato ai margini il complesso sistema prevenzionistico imperniato sul d.lgs. n. 81/2008”, anche se “rischio lavorativo e rischio generale per la popolazione, invero, s’intrecciano e condizionano reciprocamente, in forme certamente inedite”.
Tuttavia “è possibile ed anzi necessaria un’armonica interazione tra sistema prevenzionistico e nuove misure di cautela”. E a fronte di un agente infettivo pandemico, “la prudentia e l’equilibrato bilanciamento tra interessi rappresentano virtù da coltivare a livello aziendale anche a prescindere dalla probabilità e dall’entità dei risvolti penali. Vi sono pure altri rischi che un’impresa dovrebbe tenere in conto: tra questi, la riduzione di produttività e il danno all’immagine aziendale che potrebbe causare la circolazione incontrollata del virus in un contesto di lavoro”.
Non va poi dimenticato che “il virus più pericoloso per qualsiasi impresa o entità pluripersonale non è il Covid-19, ma è la disorganizzazione. E questo virus può colpire ogni organo e tessuto dell’ente sociale, fino a pregiudicare, nei casi più gravi, la stessa sopravvivenza dell’ente”.
Fonte: puntosicuro.it