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Il paradosso della privacy, e quanto siamo disposti a pagare per averla

Umberto Eco ne parlò in una celebre Bustina di Minerva nel 2014, divertendosi a tradurre “privacy” con un neologismo italiano volutamente improbabile: la privatezza. «Detto alla buona significa che ciascuno ha diritto a farsi i fatti suoi senza che tutti, specie delle agenzie pagate dai centri di potere, lo vengano a sapere». Poi Eco si pose la domanda: «La gente ci tiene davvero alla privatezza?». E qui le cose si complicano. Persone di ogni età hanno un rapporto ambiguo con la privacy. A parole la reclamano come un diritto imprescindibile. Durante una cena o un convegno aziendale, basta accennare a come le nostre informazioni vengano sfruttate online, ed ecco che amici e colleghi lanciano grida di allarme. Passando ai fatti, emerge una situazione ben diversa. La gente non fa quasi nulla di concreto per difendere il diritto a farsi i fatti propri.

Il ricercatore Stowe Boyd nel 2009 coniò il termine publicy, descritto come il diritto di ciascuno di comunicare, esprimersi e mettere in pubblico la propria vita online per ottenere visibilità e riconoscimenti. Recentemente, gli psicologi Nathalie Nahai e Tomas Chamorro-Premuzic si sono domandati cosa saremmo disposti a fare per ritornare dalla publicy alla privacy e rimanerle fedele nel tempo. Partono da questo presupposto: un tempo gli aggettivi “personale” e “privato” erano sinonimi. Nella realtà dei bit invece le informazioni personali sono quanto di meno privato possa esistere. Ecco dunque un elenco di perdite a cui dovremmo sottostare per tornare alla privatezza.

Niente più servizi online “gratis”. Come si sente spesso ripetere: «Se non stai pagando per un servizio digitale, non sei il cliente, sei il prodotto». Per tornare a una situazione in cui manteniamo privati i nostri dati personali, dovremmo pagare una quota. Il che oggi è impensabile. Anche se le piattaforme ci permettessero di scegliere se pagare in privacy o in denaro, stabilendo un prezzo di mercato, cosa scegliereste? È stato fatto un calcolo: nel 2016 Facebook era valutata 35 miliardi di dollari grazie a un miliardo e 650 milioni di utenti: significherebbe che il prezzo che paghiamo in privacy è di almeno 212 dollari l’anno. Sareste disposti a sborsarli per usare Facebook, se i vostri dati non fossero minimamente analizzati a scopi statistici e pubblicitari? Mi aspetto che qualcuno risponda di sì, e con convinzione. Bene. Aggiungete però cifre analoghe per ogni servizio gratuito che utilizzate. Dalle mail alle chat, dai servizi Google e YouTube a quelli di Apple e Amazon e le app che utilizzate quotidianamente. La somma diventerebbe insostenibile per molti. Insomma, il modello «prendi i miei dati di navigazione senza che nemmeno me ne accorga e lasciami usare il servizio quando e quanto voglio senza chiedermi un soldo» è troppo dannatamente comodo perché venga sostituito facilmente.

Niente più personalizzazioni. Siamo abituati a servizi che offrono una personalizzazione sartoriale: veniamo guidati in mezzo all’infobesità e troviamo ciò che stiamo cercando in un minor numero di click. Abituandoci al baratto tra pezzi della nostra privacy in cambio di qualche tocco in meno sullo schermo.

Niente più gratificazioni istantanee. Viviamo in un’era in cui solo la gratificazione istantanea è abbastanza veloce. L’appagamento in tempo reale è diventato lo standard che pretendiamo da un servizio digitale. Questa impazienza costante si riflette nel rapporto con la privacy: quando è stata l’ultima volta che avete letto le condizioni di servizio di un’app appena scaricata? Di fronte a un download succulento o un aggiornamento importante, il desiderio di gratificazione istantanea si divora in un boccone qualsiasi preoccupazione razionale, portandoci a non avere la minima idea di come i nostri dati verranno utilizzati. Stiamo vivendo un privacy paradox di massa: la difendiamo e pretendiamo a parole, ma non ci attiviamo per proteggerla. Zygmunt Bauman è stato lapidario a riguardo: la privacy è morta e l’abbiamo uccisa noi. Secondo il filosofo polacco siamo immersi in una «società confessionale che promuove la pubblica esposizione al rango di prova di esistenza sociale». Siamo davvero passati dal cogito ergo sum al posto ergo sum. Sempre più persone che, per sentirsi vive, devono dimostrarlo online.

Si torna così alla domanda di Eco. La gente ci tiene davvero alla privatezza? La risposta di chi scrive è: non abbastanza. Mettendo insieme i vantaggi della publicy con le fatiche della privacy, diventa chiaro il motivo: siamo sedotti e accecati dalla prima, e non abbiamo più la volontà di mettere in pratica la seconda.


Fonte: ilsole24ore.com

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