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Tinder: “800 pagine di dati personali”: quanto pesa la privacy delle piattaforme
IN EFFETTI, l’idea di vedere raccolti tutti i dati, personali e no, ceduti nel corso degli anni a una piattaforma online, in un unico tomo cartaceo da centinaia di pagine, può sorprendere non poco. È quanto è successo alla giornalista francese Judith Duportail che lo scorso marzo ha preso di mira Tinder, la più celebre fra le applicazioni per organizzare incontri e scappatelle. Col supporto di due specialisti del settore, fra cui l’attivista per la privacy Paul-Olivier Dehaye di Personaldata.io e l’avvocato Ravi Naik, ha avanzato una richiesta di accesso ai dati personali memorizzati sui server della piattaforma. in base a quanto previsto dalla direttiva europea sulla protezione dei dati personali, la 95/46/EC. La sorpresa? Dal quartier generale di Tinder le è stato recapitato un malloppo da 800 pagine.
Dentro, come spiega sul Guardian, c’era tutta la storia della sua permanenza sull’app. Tutti i like, le chat, gli account sincronizzati, le foto, i messaggi, le geolocalizzazioni, gli incroci e gli incontri con 870 persone diverse nelle 920 volte in cui ha lanciato il programma. Ovviamente anche tutto il resto, cioè le cosiddette informazioni secondarie implicite. A partire dai propri incontri e dalle proprie preferenze, sessuali e no, la piattaforma può inferire un’ulteriore e massiccia quantità d’informazioni personali. Utilizzate, al solito, per migliorare la pubblicità. Ma anche, come ha risposto un portavoce dell’azienda, “per personalizzare l’esperienza per ciascuno dei nostri utenti nel mondo”. L’ultima cifra disponibile parla di circa 50 milioni di utenti. “I nostri strumenti di matching sono dinamici e considerano diversi fattori quando mostrano un potenziale incontro, proprio per personalizzare l’esperienza di ogni utente”.
Il punto, però, sta proprio in quelle 800 pagine. Perché ci occorre visualizzare la gigantesca mole d’informazioni che, in totale coscienza, abbiamo ceduto a quel servizio (così come facciamo ogni giorno su infinite altre piattaforme, Facebook e Google ne avrebbero decine di migliaia di pagine da stampare sul nostro conto, dagli amici agli acquisti fino alle ricerche) mentre discuterne in termini generali, o magari di gigabyte, non produce lo stesso inquietante effetto? La ragione sta probabilmente nella nostra limitatezza: secondo Luke Stark, sociologo della Darmouth University, “le applicazioni come Tinder si avvantaggiano di un semplice fenomeno emotivo: non possiamo sentire i dati. Ecco perché vederli stampati ci colpisce. Siamo creature fisiche e abbiamo bisogno di materialità”. Sotto altri punti di vista è lo stesso principio su cui fa leva quel bizzarro servizio, Zapptales, che promette di mettere nero su bianco tutte le nostre chiacchierate via WhatsApp.
I dati personali sono dunque la benzina dell’economia digitale e quelli dei consumatori vengono commercializzati e scambiati, oltre a essere stati usati per confezionare esperienze d’uso e calibrare pubblicità, senza alcun mistero. Certe volte, come accaduto a moltissime piattaforme anche di dating, vengono compromessi e sottratti: uno degli hack più drammatici, anche per le conseguenze che ha provocato, è stato quello del luglio 2015 alla piattaforma per appuntamenti canadese AshleyMadison, per un totale di quasi 30 GB di dati, incluse le informazioni di 32 milioni di utenti. Una parte della vicenda si è chiusa proprio lo scorso luglio, quando Avid Life Media, divenuta poi Ruby Corporation forse proprio per risciacquare il brando dopo la breccia, ha chiuso oltre venti cause con indennizzi per gli utenti dall’importo totale di 11,2 milioni di dollari.
D’altronde sono le stesse policy delle piattaforme a ricordare spesso come quei dati non vadano considerati a prova di bomba. Su Tinder si legge per esempio che non ci si dovrebbe aspettare che le informazioni personali, le chat o altre comunicazioni “rimangano sicure”. Senza contare l’uso che ne viene fatto anche per fini, come dire, diversi. Tipo il controverso studio di cui si è di recente parlato, quello sull’orientamento sessuale delle persone dedotto da un algoritmo allenato proprio su scatti prelevati da una simile piattaforma.
Fonte: Repubblica.it